Il Duca Bianco, l’Alieno, Ziggy StardustDavid Bowie ha lasciato questa terra due giorni fa. L’urgenza di salutarlo anche noi, con un breve scritto, si è manifestata nella sua immanenza. Ma se da una parte sarebbe stato uguale a tanti altri che hanno affollato la rete, dall’altra chi scrive ha sentito quanto sarebbe impossibile cercare di tradurre l’intimo sentire, così forte e vero, che una tale perdita ha fatto esplodere. Il dolore per la dipartita di questo genio occupa momentaneamente il vuoto, ma poi dubitiamo che qualcuno, davvero, possa mai riempirlo.

Perché quel che Bowie ha fatto è unico e legato alle decadi che ha vissuto. È ciò che ha realizzato a renderlo unico. Per questo abbiamo deciso di concentrarci su un solo aspetto di lui, quello dell’innovazione. Per dare, nel nostro piccolo, una spiegazione e un lascito a chi, troppo giovane, non sa perché oggi si fa un gran parlare di quel rivoluzionario dagli occhi diversi.

Ecco i cinque campi in cui David Bowie è stato maggiormente un innovatore. Non sono stati gli unici, e non sono così netti. La musica si mescola inevitabilmente al cinema, alla moda, il make-up alla tecnologia e questa ancora alle altre arti, in un caleidoscopio di visioni sempre nuove, sempre diverse, mai banali.

Ci sarà un motivo se, oltre alle star di tutto il mondo, persino il Vaticano ha reso omaggio a David Bowie, prima volta nella storia per una star del rock, dichiaratamente bisessuale per giunta. Ma il suo lascito, la sua eredità, va ben al di là di ogni confine che possa tracciare mente umana.

David Bowie e la musica

Inutile persino insistere su un punto così lampante. Fin dalla seconda metà degli anni Sessanta David Bowie è stato un attivo componente del panorama musicale. Erano quelli gli anni in cui a Londra si poteva passeggiare con i Beatles e i Rolling Stones. David Robert Jones – che da bambino voleva diventare l’Elvis britannico, e del resto condivide con lui il compleanno – non se ne stava solo nella sua stanzetta a comporre, ma “bazzicava” tutti i luoghi fulcro della nuova cultura che stava nascendo, era amico di altri irrequieti artisti come lui, pianificava viaggi, innesti tra culture per vendemmiare nettari musicali. I semi furono gettati lì, sul quel terreno fertilissimo, che poi lui stesso contribuì a coltivare.

Il termine “rockstar” gli è sempre andato stretto. Più volte rispose piccato ai giornalisti (per quanto il suo garbo gli consentisse di mostrarsi infastidito) che lo definivano tale. E in effetti nei suoi venticinque album, Bowie sperimentò i più disparati generi, passando i limiti tra uno e l’altro, mescolandoli, commistionandoli, nutrendoli delle sue esperienze e delle sue idee. Dal glam rock al progressive, al punk, alla new wave, dai pezzi acustici solo con voce e chitarra alla musica elettronica. Eppure all’ascolto la sua cifra stilistica, la sua impronta, risulta così chiara ed evidente che è difficile non chiamarlo rockstar. Forse perché il rock, tra gli altri generi, è proprio quello che consente maggiormente di spaziare, fino alla psichedelia, come nella coda lunghissima di Space Oddity, persa nell’iperspazio proteso fra le menti interconnesse in un ascolto collettivo. In qualche modo contemporaneo, nel mondo.

David Bowie e il cinema

Quando si nomina il cinema parlando di David Bowie, la prima immagine che salta agli occhi è quella di Jareth, il re dei Goblin, nel magnifico fantasy Labyrinth, del 1986. Ma non è certo soltanto con il bel film di Jim Henson che David mise se stesso a disposizione della crescita della Settima Arte. Oltre a cameo divertenti, per amici e stimati registi, come quello in Zoolander, Bowie fu nei film di alcuni grandissimi autori. Per nulla trascurabili il suo Pilato ne L’ultima tentazione di Cristo, di Martin Scorsese, Nikla Tesla in The Prestige di Christopher Nolan, Phillip Jeffries in Fuoco cammina con me di David Lynch il suo suo Andy Warhol in Basquiat di Julian Schnabel. Protagonista in pellicole che chiamare cult sarebbe riduttivo, come Absolute Beginners, del mai troppo celebrato Julian Temple, o Furyo, film di guerra di Nagisa Ôshima, una delle sue tante connessioni con l’Estremo Oriente. Ma fu con Tony Scott che David Bowie iniziò a donare al cinema. L’uomo che cadde sulla Terra è il lungometraggio d’esordio di colui che diverrà un grande regista, e David ne fu protagonista assoluto, anche lui all’esordio nel mondo del nitrato d’argento. Un film pazzesco, dissacrante, sperimentale e senza limiti. Probabilmente non avrebbe potuto essere interpretato da nessun altro. Era il 1976, e Bowie voleva moltissimo diventare attore. Anni dopo, sempre Tony Scott lo rivuole per Miriam si sveglia a Mezzanotte, al fianco di Catherine Deneuve. David si mette di nuovo al servizio dell’arte, ed è memorabile la scena del suo invecchiamento istantaneo, nella direzione di un’innovazione che il cinema prenderà in seguito. The Hunger, questo il titolo originale, diventerà poi anche una serie TV, con Bowie a introdurre ogni episodio.

E anche il cinema lo ha già omaggiato, con quel Velvet Goldmine in cui Todd Heynes lo chiama Brian Slade.

L’entusiasmo in questo campo ci farebbe prendere la mano. Basterà ricordare che ben 454 titoli vantano il suo nome nella soundtrack: per volontà dell’artista, le sue canzoni devono essere facilmente inseribili in un film. Compositore di sei colonne sonore originali, regista, sceneggiatore, produttore, ha generato uno dei cineasti più interessanti del panorama contemporaneo. Duncan Jones fa raramente il nome di suo padre. Non ne ha bisogno per fare carriera, ha già il talento.

Ma anche se suo figlio è probabilmente il lascito che più fieramente David Bowie ha fatto al cinema, per noi i documentari che lo vedono protagonista sono ciò che lo farà vivere nei secoli. In testa, ovviamente, il capolavoro di D.A. Pennebaker: Ziggy Stardust and the Spiders from Mars.

David Bowie e la moda

Toccare questo argomento fa subito canticchiare Fashion, tanto per dirne una. E non a caso, David Bowie ha sposato una top model, che gli è rimasta accanto per un quarto di secolo, fino alla fine. Affermare che Ziggy, o il Duca, abbia condizionato la moda è vincere con estrema facilità. La stessa Madonna ha confessato che decise che sarebbe stata un’artista dal look camaleontico perché ispirata da Bowie. Certamente gli anni più iconici sono stati per lui i ’70, quelli di Ziggy Stardust. Il suo alieno da Marte è un’icona riprodotta ovunque, al pari del sorriso di Marilyn e dello sguardo di Che Guevara.

Il 3 luglio 1973 David Bowie decide di uccidere il suo altre ego. E nell’atto di morire, Ziggy divenne immortale. È l’ultima tappa di un tour stremante e costosissimo quella allo Hammersmith Odeon. Bowie ha trascorso molto tempo anche in Giappone e da lì ha traslato molti elementi nei suoi costumi, dall’antica arte della calligrafia al look degli allora iper moderni e sconvolgenti “robottoni” animati. Pronuncia un addio, prima di chiudere con Rock ‘n’ Roll Suicide, la gente piange, ma ad andarsene sarà solo Ziggy, non David. Quarant’anni dopo Jean Paul Gaultier omaggia nella sua collezione 2013 i costumi di quel concerto. E subito dopo di lui, le più famose riviste di moda pubblicano servizi e copertine ispirate a Ziggy Stardust.

Dopo la parentesi dandy-punk, David diventa il Duca Bianco. Nuova icona, stile diverso, sobrio ed elegante, con i capelli biondo platino sovente tiranti all’indietro con la brillantina. Sono gli anni del cinema, in cui Tony Scott gli fa interpretare alieni e vampiri, e queste nuove esperienze finiscono tutte nella musica e nel look, che diventa famoso e imitato quanto il precedente, con al fianco l’amica Annie Lennox, androgina quanto lui.

Fino all’ultimo David Bowie non ha seguito le mode, le ha anticipate, glamour anche alla soglia dei settant’anni e con la stessa lucidità e voglia di stupire di sempre.

David Bowie e il make-up

Ziggy Stardust è ancora una volta la prima immagine che salta alla mente se si parla di make-up. Il trucco di scena ad Hammersmith, il volto fumettistico nel videoclip di Life on Mars, la saetta che squarcia il suo volto sulla copertina di Aladdin Sane.

Anche qui però sarebbe una considerazione riduttiva: il make-up per David Bowie è sempre stato fondamentale. Si pensi a quanto l’incarnato del Duca Bianco è sempre stato perfetto. Si pensi al videoclip di Thursday’s Child. E ovviamente al total look di Jareth in Labyrinth. Ampliando poi il concetto a tutto il look-making, comprendendo anche le acconciature, non ci si può che arrendere di fronte a quanto, sino alla morte, David Bowie abbia dettato legge in fatto di tendenze. Il mullet fiammante di Ziggy Stardust, il biondo Tiziano e poi il platino del Duca Bianco, per poi passare attraverso tagli di capelli sempre anticipatori di mode, fino all’ultimo, quello sfoggiato in Lazarus, con i capelli bianchi sparati in alto a sessantanove anni compiuti. Non era vanità, tanto il fascino lo ha sempre trasudato, era classe. Pura classe britannica, rivoluzionaria come solo loro sanno essere.

David Bowie e la tecnologia

Quello che probabilmente in pochi conoscono è l’apporto che David Bowie ha dato alla tecnologia, soprattutto all’informatica. Che sia stato sempre affascinati dalle scienze quanto dalle arti non è mai stato un mistero. E che ogni tipo di comunicazione sia sempre stata al suo servizio è fuor di dubbio. Non a caso, la sconvolgente notizia della sua morte è stata annunciata attraverso i social network. Ma non tutti conoscono BowieNet, il provider che David mise in piedi nel 1998. Pioniere della Rete, David Bowie si trovò un socio, Ron Roy, che proprio nella giornata di oggi ha rilasciato un’intervista per ricordare quest’avventura. BowieNet era un fan club, dislocato in tutto il mondo, in grado di essere unito grazie alla rete. Un social network, ben prima che nascesse MySpace. Una home completamente customizzabile, un’email personale con estensione @davidbowie.com, gruppi, chat, condivisioni online, giochi in rete e molto altro. Nel 1998. Per la velocità a cui siamo abituati oggi, equivale a secoli prima di Facebook e Twitter. E tutto era nato sotto la bionda chioma del Duca. Un uomo dall’immagine pubblica mai vista prima, e dalla vita privata riservatissima, tanto da tenerci nascosto il suo male, quello che ce lo ha strappato via, sempre troppo presto.